Tratto da : ‘Domande e risposte’ -  Colloqui di Kankhal

(Terza parte del libro UN FRANCESE IN HIMALAYA)

Vijayânanda parla di sé stesso

Domanda : Lei pratica il mantra ?

Vijayânanda : Quando mi dedico alle mie occupazioni quotidiane, la cucina, ecc…lo recito di continuo. Ma quando mi siedo per meditare, lo lascio.

Lei ha avuto momenti di dubbio ?

Mai per quel che riguarda la sâdhanâ stessa. Sono sempre stato convinto che era la sola cosa che valesse veramente la pena. Non ho mai dubitato della grandezza spirituale di Mâ Ananda Moyî. Però qualche volta mi chiedevo se, essendo completamente immersa nell’ortodossia indù, se fosse in grado di guidare un Occidentale nato e cresciuto in una tradizione totalmente diversa. Però questo è stato utile poiché sono stato costretto a raggiungere il ‘denominatore comune’ e cioè il livello comune a tutte le religioni.

Un visitatore francese che vive da diversi anni in India : Gli è successo nella sua meditazione di sentire dei punti di ‘non-ritorno’ in cui capiva che non poteva regredire né ricadere ?

Si. Il giorno in cui ho incontrato Mâ, mi ha dato il shaktipat, il risveglio del potere interiore che solo un maestro autentico può dare e che crea una relazione eterna, indestruttibile tra maestro e discepolo.

Lei ha il sentimento malgrado ciò di aver fatto dei progresse, dopo ?

Certo. A meno di essere al vertice della Realizzazione, bisogna lavorare. E’ detto, negli Yoga Sutra di Patanjali mi sembra, che ad un certo momento la roccia rottola giù dalla montagna. Ha trovato il suo equilibrio e non può più risalire : è il sahaja sâmadhi, lo stato naturale.

Una visitatrice : Quando vado da qualcuno e che vedo che le piante sono mal curate, è come se le sentissi gridare.

Anch’io. Non colgo fiori, neanche una foglia, perché avrei il sentimento di causare sofferenza per la pianta. A Calcutta, all’inizio del mio soggiorno in India, avevo una relazione speciale con un albero dell’ashram. Ogni giorno andavo ad accarezzarlo. Aveva un ramo disseccato. Un giorno ho avuto l’idea di accarezzarlo dicendo in me stesso: “Se Dio vuole dei boccioli verranno anche su questo ramo”. Il giorno dopo sono venuti. La cosa interessante è che qualche giorno più tardi non c’erano più. Qualcuno gli aveva strappati probabilmente. Era come se non dovessi vantarmi di aver fatto un miracolo.

L’essere spoglio di tutto aiuta alla sâdhanâ?

Quando abitavo nell’ashram di Benares, Arthur Koestler mi ha fatto visita. In quell’epoca non avevo un letto e lui l’ha menzionato nel suo libro. Leggendo questo libro, tempo dopo, il responsabile dell’ashram , Panuda, è venuto da me protestando : « Perché non c’è l’ha detto prima ? Gliene ne avremmo dato uno ! » Infatti me ne ha dato uno. Non sono il tipo da chiedere. Mâ, lei stessa, viveva molto semplicemente.

Le succede di mettersi al letto per causa di malattia ?

Molto raramente. Per mezzo secolo, anche di più, non mi sono mai messo al letto. Solo nel 1993 ho dovuto essere ricoverato per quindici giorni in seguito ad una disenteria. Se mi coricassi sarebbe come riconoscere la mia disfatta davanti alla malattia.

Lei ricorda i nomi delle persone che la vengono a trovare ?

No, non veramente, poiché di fatti, rispondo a degli stati di coscienza, ed è a loro che faccio eco. Se la gente potesse modificare questi stati, avrebbe delle risposte diverse. Ma non è facile cambiare uno stato di coscienza. Comunque, da un po’ di tempo, mi accorgo che ricordo meglio i nomi delle persone (Vijayânanda ha 88 anni quando dice questo…)

Lei pratica uno yoga particolare coi suoi sogni ?

Ciò che la gente comune considera come la realtà è di fatti un sogno. Il sogno è dunque un sogno nel sogno. Certo, qualche volta, in meditazione, si è in uno stato tra il sonno e la veglia, con delle immagini di sogni che risalgono in superficie. Ma si tratta di un processo cosciente, diverso in ciò dal sogno notturno. Non accordo un’importanza particolare a quest’ultimo. Ogni tanto sento delle musiche, ogni tanto sogno di Mâ, ma la mattina ho dimenticato il contenuto esatto di tutto ciò, ne rimane che un’impressione affettiva. Non è che una manifestazione di più dell’attività mentale.

Un discepolo prossimo : Vijayânanda, vorrei che Lei ci scrivesse delle massime di saggezza.

Un saggio non scrive delle massime di saggezza. Ciò sembrerebbe troppo pedante. Ma è possibile che i suoi discepoli prendano nota di certe delle sue parole.

Che effetto fa, l’invecchiare ?

E’ molto bene. Se uno ha messo la sua casa in ordine, ritrova subito quello di cui ha bisogno. E’ la stessa cosa col mentale quando uno ha lavorato su sé stesso. Inoltre, se si è dimostrato molto intenso nella sua sâdhanâ, questa intensità stessa può rivelare un ostacolo. Con l’età diminuisce e ciò gli permette, di fatti, di superare l’ostacolo. Di certo non ho assolutamente paura della morte. Questo mi aiuta ad approfittare dei miei vecchi giorni. E poi posso comunicare con giovani e belle donne senza che ci sia la minima traccia d’ambivalenza… Sono nello stesso stato quando medito e quando mi trovo con la gente.

Qual’è la vostra attitudine di fronte all’altro mondo ?

Sono di già nell’altro mondo.

L’ANZIANO FRANCESE CHE E’ DIVENTATO ANZIANO SECONDO LA SAGGEZZA DELL’INDIA

Da Jacques Vigne

Vijayânanda è un’anziano. All epoca del colloquio che segue, aveva ottanta anni. Adesso ne ha novanta due. Ha lavorato tutta la sua vita nel senso della saggezza e in modo intensive come monaco in ashram – e anche eremita in Himalaya per sette anni. Non daremo qui un’ idea globale delle sue esperienze con Mä Ananda Moyî e del modo in cui trasmette il suo insegnamento. Quest’argomento è stato oggetto di un libro pubblicato in francese e tradotto in inglese e in italiano [1] . Mi sono accontentato di fargli alcule domande semplici sul rapporto tra vecchiaia e saggezza che possono essere accessibili ad un pubblico largo e ci ho aggiunto una breve testimonianza sul mio contatto con lui da qualche anno in qua.

Jacques Vigne : In che modo un anziano può dare prova di saggezza ?

Vijayânanda : Adattandosi alla sua età. Si può essere felici a qualsiasi età. La vera prova di saggezza di un anziano è di saper guardare la realtà in faccia : la sua vita finirà presto ; come prepararsi a morire dignitosamente, come trovare la chiave che può far andare al di là della morte, che può aprire la coscienza e permettere di sapere se c’è un ‘aldilà’ e di che cosa è fatto. In questo campo qua, come negli altri, la ‘politica dello struzzo’ non è un gran che utile.

Quelli che sono un po’ credenti possono dire : « Oh ! Penserò a Dio nel momento della morte, basterà ! ». Ma il fatto è che è molto difficile guidare il mentale al momento della morte. Sono i desideri e gli attaccamenti più forti che risalgono, approfittando dello stato d’indebolimento del corpo e dello spirito. In Oriente si crede che è l’ultimo desiderio che deciderà della prossima incarnazione. Ma Ananda Moyî raccontava a questo proposito questa storia :

« Una vecchia molto avara era in articolo di morte. Aveva lavorato come mercante d’olio e tutta la sua vita aveva detto ai mendicanti che le chiedevano un po’ d’olio: “Non te ne darò un goccio ! Neanche un goccio ! » E quando arrivò la sua ultima ora la sua famiglia aveva un bel dirglielo e ridirglielo di ripetere il nome di Dio, le sole parole che uscivano della sua bocca erano : « Neanche un goccio ! Neanche un goccio !... »

Si parla di esperienza della vita. Ma un’altra maniera di acquisire esperienza non può essere quella di vivere accanto a qualcuno che abbia già esperienza ?

Fondamentalmente, bisogna fare la propria esperienza. Certo un maestro può dare dei consigli, delle indicazioni, guidare nei momenti difficili, però bisogna ricorrere il più possibile alla propria forza. Non è mai buono poggiarsi nella forza di un altro. Una madre può dire dieci volte al suo bambino : « Non ti avvicinare al fuoco ». Fino a quando non si sarà scottato, il bambino non capirà veramente.

Non si approfitta dell’esperienza di un maestro spirituale ; invece quest’ultimo può dare una forza, una vigilanza di spirito, un potere che aiuta il discepolo a fare la propria esperienza. Infine questo potrà dire al suo maestro quel che diceva Churchill agli Americani dopo maggio 1940 : « Dateci gli strumenti, noi faremo il lavoro ».

Dar un esempio dell’assenza di paura di fronte alla morte, non è un elemento fondamentale della saggezza degli anziani ?

Se uno è realizzato vuol dire che è già morto. Cioè che ha vissuto la morte dell’ego che terrorizza ancora più della morte fisica. Se no, uno non sa come reagirà il proprio mentale. Una cosa è di dire, quando si sta in buona salute : « Non ho paura della morte ». Tutt’altra è quella di non aver realmente paura al momento della morte. Questo è il fatto dei santi o degli yoghi. Possono dirigere la loro partenza dal corpo, particolarmente portando la loro energia vitale (prâna) ad uscire dal punto del corpo che desiderano. In genere dalla cima della testa. Le persone che non hanno questa capacità possono aiutarsi concentrendosi sulla visione del Paradiso, quelle che hanno un maestro, sull’immagine di questo maestro, poiché è detto che deve venire a soccorrere il suo discepolo all’ora ultima. L’aiuto che uno può ricevere dipenderà dalla sua fede, poiché tutti i fenomeni sono di ordine mentale. Se qualcuno non crede in niente può lo stesso aiutarsi vedendo il decesso come un addormentamento. Sembrerebbe, leggendo dei rapporti di esperienza di morte imminente, che spesso uno non si accorga neanche di essere morto.

In India c’è l’esempio di quattro anziani molto elevati spiritualmente che ricevono l’Insegnamento supremo da un Guru adolescente, Dakshiramurti. Senza andare fino lì, non è forse, una parte della saggezza degli anziani quella di saper apprendere da certi giovani, magari anche da certi bambini ?

Certo. Si può imparare da tutti e a tutte le età. Gli animali stessi ci possono insegnare. A proposito di questo si racconta in India la storia di un saggio, Dattatreya, che aveva avuto ventiquattro guru. Uno di quelli era stato l’uccello da preda che aveva appena rubato un pezzo di carne. Si è fatto attaccare da altri uccelli che volevano strapparglielo. Alla fine il solo modo che ha trovato per essere tranquillo è stato di abbandonare quel pezzo di carne. L’uccello che aveva ripreso la carne è stato a sua volta attaccato…Dattatreya ha imparato anche dal ragno e della sua pazienza : quando la sua tela viene distrutta la ricostruisce come se niente fosse. Dalle onde del mare ha imparato l’umiltà sorridente : infatti quando si schiantano sulle rocce fanno nascere un sorriso che si estende a lungo da ogni lato. Un giorno Dattatreya vide due donne che stavano tessendo : una di loro aveva due braccialetti al polso. Col movimento della tessitura si urtavano e facevano rumore. L’altra, invece, aveva un solo braccialetto e poteva tessere senza rumore. Dattatreya ne ha dedotto che c’è un legame profondo tra silenzio e unità.

Si dice in Oriente che l’esperienza completa della meditazione distrugge il tempo e distrugge anche la morte. Come interpretare questo ?

Quando uno è identificato col Supremo, la Coscienza universale, il tempo non c’è più. Per valutare il tempo si ha bisogno di modificazioni, di movimenti, siano questi i movimenti apparenti del sole nel cielo o quelli delle lancette dell’orologio. Quando si diviene identificato alla Coscienza Suprema che è testimone di tutti i movimenti, essendo puramente statica, il tempo è distrutto. Allo stesso modo lo spazio è un concetto mentale. Vedere l’Assoluto come onnipresente e riempiendo uno spazio infinito, non corrisponde interamente a questa coscienza di base, a questo campo unificato verso il quale tende anche la fisica moderna. E’ la coscienza che conferisce una realtà a quei concetti. Prendete una banconota : in sé non è che un pezzo di carta. Però è l’autorità della Banca Nazionale, é la fiducia che gli da la gente che gli conferisce il suo valore. La coscienza universale e allo stesso tempo interiore segna col suo marchio di realtà il mondo transitorio.



[1] Pubblicato in francese nel libro di Jacques Vigne L’India interiore Editions du Relié, 84220 Gordes Francia –nel 2007