Riflessioni per gli Occidentali che vanno in India

Riprendiamo qui sotto un testo che fu scritto da Vijayânanda nel 1957 per il giornale trimestrale di Mâ Ananda Moyî. Questo documento conserva la sua attualità per gli Occidentali che vogliono capire meglio l’India spirituale.

            Alcuni le hanno dedicato la loro esistenza e vivono sotto la sua guida. Però la maggior parte di loro pensa che è piuttosto difficile adattarsi all’ambiente dell’India. Certi si lamentano della mancanza di comprensione. Altri, una minoranza, non riescono addirittura ad adattarsi a quel mondo e sono in conflitto con il loro ‘entourage’. La diversità dei livelli e dei modi di pensare ne è, a parer mio, il motivo principale. Questa confusione è del tutto abituale, poiché l’illusione della mente è costruita, nel suo insieme, sul fatto di prendere una cosa per un’altra.

            Però gli Occidentali che vengono in India in cerca di spiritualità, non sono del tutto gente comune, e possiamo aspettarci da parte loro un comportamento in funzione di quel fatto. Coloro che per il Supremo, hanno lasciato la loro famiglia, il loro paese, un clima che gli conveniva, per rimanere in un ambiente in cui tutti i dettagli di ciò che rappresenta una vita quotidiana naturale e confortevole per altri, richiede per loro uno sforzo gravoso di adattamento, quelli non sono di certo gente comune.

1-     L’Atmic Sambandha, la relazione di unità con il Sé Universale.

2-     La Paramarthic Sambandha, che unisce due ricercatori sul piano spirituale.

3-     La Dharma Sambandha, il legame tra praticanti di una stessa religione, o gli adoratori di una stessa divinità.

4-     La Jati Sambandha, o la comunità di nascita.

      E’ chiaro che questi diversi piani non sono del tutto separati. Possono interpenetrarsi l’uno l’altro, però quel che è vero ad un certo livello può essere sbagliato ad un altro livello. Tutti gli uomini sono Uno nell’Atmic Sambandha, la relazione con il Sé Universale. Si può appena chiamare questo un piano di coscienza. E’ la meta finale di tutti i cercatori spirituali autentici.  Dal punto di vista assoluto, c’è solo una coscienza che rimane in tutti gli esseri.  Le differenze evidenti d’individualità, di nome e di forma, non hanno che una realtà effimera, o addirittura, come alcuni lo asseriscono, sono del tutto irreali e illusorie. E’ certo che, quando si ha realizzato questa verità suprema, non può avvenire né conflitto, né opposizione verso chicchessia o checchessia. Questa coscienza superiore è quella nella quale Shrî Shrî Mâ Ananda Moyî vive, parla ed agisce, in ogni circostanza, senza nessuna interruzione, di giorno come di notte, dall’istante stesso in cui ha assunto una forma fisica. Per Lei, non c’era nessuna differenza di nazione o di razza, di casta o di credenza. Ai suoi occhi, tutti sono manifestazioni della Coscienza Divina, se non addirittura del proprio Sé, come l’ha asserito Lei stessa molte volte e in molti modi. Qualche volta, ci sembrava che si comportasse in modo diverso con gente diversa. Ma ci sono forse due motivi a questo. Prima di tutto, possiamo vedere le cose con i limiti impostici dai limiti del nostro punto di vista. Quando uno progredisce sulla via spirituale, capisce a poco a poco come spesso l’intelletto, di cui andiamo così fieri, e nel quale abbiamo riposto tutta la nostra fiducia, sbaglia e ci inganna di continuo. La seconda ragione è che Mataji non era soltanto un Essere Realizzato, era anche un grande Guru tra i più grandi. E la sua meta era di risvegliarci alla nostra vera natura.

            In quanto alla sua attitudine nei confronti delle usanze sociali od altre, era probabilmente dovuta a quelle stesse ragioni. Inoltre, un Essere Realizzato non è né riformatore né fondatore di una qualunque nuova religione. Desidera semplicemente ricordarci la Verità eterna : « Tu sei quello ». Per ciò che riguarda le usanze sociali ed altre, l’Essere Realizzato può prendere le cose come sono e utilizzarle come una leva per condurci alla riconoscenza  della fonte di ogni sofferenza : la nostra mancanza di coscienza della nostra vera natura. Cambiare alcuni dettagli senza andare fino alla radice, non procura nessun vero sollievo. Ma per noi che non abbiamo realizzato la nostra vera natura, è impossibile vivere in questo stato elevato di coscienza.

            Quando parlo di ‘cercatori spirituali autentici’ non alludo a quelli che cercano la notorietà o a quelli che mirano solo allo sviluppo dei loro poteri psichici, che tra l’altro non faranno che legarli di più. Non alludo neanche agli adoratori di divinità che sperano una ricompenza qui, o nell’al di là. Alludo a quelli che si sono dedicati interamente al Supremo, al Sé Eterno che dimora in ognuno di noi. E’ a questa relazione che pensiamo quando ci chiamiamo l’uno l’altro ‘fratello’, ed è in questo stato d’animo che siamo venuti in India, per far valere I nostri diritti all’eredità di quel immenso tesoro di saggezza, l’Atma Vidya, trasmesso da tempi immemorabili dai grandi Rishi, i grandi saggi, i grandi santi dell’India, tra i quali Shrî Shrî Mâ Ananda Moyî è una delle più grandi tra i grandi.

            Mai nessuno ha espresso le verità più alte con un linguaggio così chiaro e così sublime di quello dei saggi dell’India. Nessun altro paese è mai stato benedetto da un tale numero di esseri eccezionali in un susseguirsi ininterrotto da migliaia e migliaia di anni.

            Sempre è stata mantenuta viva la fiamma di questa saggezza a dispetto degli invasori e delle calamità che hanno martoriato il paese. E per giunta, ogni vedente, ogni santo, ogni saggio ha contribuito ad arricchire tale tesoro divino con il suo apporto personale.

Cosa dire poi, dei grandi saggi che vogliono più di noi stessi, condurci sulla via che porta alla conoscenza della nostra reale natura divina?

            E’ con i grandi saggi, sopratutto con il Guru, che il Paramarthic Sambandha raggiunge il suo apice. Il Guru non è semplicemente un insegnante. Quelli che non lo hanno sperimentato difficilmente possono immaginare il profondo del legame che unisce Guru e discepolo. L’amore tenero di una madre per il figlio, l’affetto profondo e virile di un padre per la figlia, la fedeltà dell’amico più caro, tutto ciò è contenuto e trasceso dall’amore del Guru per il discepolo. Niente, nessuno su questa terra o nei cieli, potrà mai spezzare questa relazione. E’ più forte della morte stessa. Avrà fine solo nell’Eterno Atman, in cui Guru e Shishya (discepolo) si fondono in uno solo. Anche se Mataji non dà nessun Mantra-Diksha, nessuna iniziazione formale, tantissime persone la venerano come il loro Guru. Un essere così grande non ha bisogno di passare per il cerimoniale di una iniziazione formale. La Shakti-Dana, la trasmissione di potere, che è di fatti l’iniziazione reale, può essere fatta in tanti modi, per esempio per contatto, Sparsa-Diksha, con un semplice sguardo, Dristi-Diksha, e anche a distanza.

            La Paramarthic Sambandha, che unisce i cercatori spirituali, il Guru e il discepolo, e i discepoli dello stesso Guru, è la relazione più profonda che si possa mai avere su questa terra. Molto più profonda della relazione di sangue che è di dominio del fisico, del fisiologico.

            Molte volte, la Paramarthic Sambandha viene scambiata per la Dharmic Sambandha, la comunità di religione. E’ in quel fatto che si trova la chiave della cattiva comprensione reciproca. Anche se queste due relazioni vanno spesso insieme, hanno dei significati del tutto diversi. Per Dharmic Sambandha intendo la relazione  tra i membri di una stessa religione, cattolici, protestanti, ebrei. O tra gli adoratori di una stessa divinità, per esempio, in India, gli Shivaisti, gli Shakta, i Vishnuisti, ecc…

            In Occidente pensiamo che una persona può cambiare religione, convertirsi ad un’altra religione se lo desidera. In India le cose sono totalmente diverse. Per l’Indiano normalmente colto, va da sé che la religione alla quale uno appartiene, fa parte integrante della sua propria natura, alla pari della casta, della razza, ecc… Il problema della conversione non si pone nemmeno. Siamo nati in una religione o un’altra secondo i nostri Samskara, le impressioni lasciate dalle nostre vite anteriori.

            Certi Occidentali che vengono in India con l’intensione di convertirsi all’induismo sono ben presto delusi. E ciò può diventare un importante punto d’attrito con ‘l’entourage’. Da lì può nascere molta incomprensione. Le diverse abitudini e il modo di pensare profondamente radicato nel subconscio, fanno che è molto difficile capire il punto di vista dell’altro.

            La religione oppure, in altri termini, l’approccio al Supremo dal suo aspetto personale grazie all’intermediario del nome e della forma, dell’individualità, può essere di grande aiuto per la realizzazione spirituale. Però questo nome e questa forma devono essere profondamente radicate nel subconscio.

            Alcuni Occidentali eccezionali – in realtà Indiani nati in Occidente per una permanenza provvisoria – sono capaci di adattarsi al culto di una divinità indiana. Ma ciò può essere efficace solo dopo un parere favorevole del Guru.

            Succede spesso che gli Occidentali si sentano offesi di non poter partecipare ad una Puja (preghiera liturgica) o entrare in un tempio indù. Gli indù ortodossi non sono degli adoratori di idoli nel senso che noi diamo a questo termine in Occidente. Tutte le immagini e i nomi non sono per loro che differenti aspetti dell’Uno. Si utilizza un nome o una forma particolare unicamente per assicurare un punto di convergenza alla devozione. Non è soltanto il punto di vista di qualche filosofo isolato, ogni indiano normalmente colto considera questo fatto come stabilito.

            Da che sono entrato in contatto con la cultura indiana, sono in ammirazione nel vedere a che punto la scienza del culto è profonda e sviluppata in India. Non è, come lo si potrebbe immaginare, una sorta di straripamento di devozione o di emozioni religiose. Ogni dettaglio dell’immagine che si adora ha il suo significato. L’espressione del viso, il colore della pelle, i gesti delle mani, gli ornamenti, tutto questo ha un significato ben definito. Il culto è reso da un Bramino qualificato. Le parole che usa nel culto sono, per la maggior parte, dei Mantra che devono venir cantati in un certo modo e che hanno per fine di stabilire una comunione tra lui stesso e il Potere Divino. I suoi movimenti sono dei Mudra, dei gesti rituali. Tutto il processo della Puja (culto) è previsto per evocare in lui una risposta al Potere Divino.

            In alcuni tempii si è perpetuato questo culto di generazione in generazione, senza interruzione, creandoci un’atmosfera religiosa e spirituale molto potente.I praticanti indù che vengono a visitare quei tempii, vibrano all’unisono in una tale atmosfera, essendo la natura stessa del subconscio indiano preparata, da migliaia di generazioni, a risponderci.

            In quanto a noi,  il nostro subconscio risponde in maniera del tutto diversa, anche se possiamo provare molta simpatia per la cultura e la religione dell’India. Le impressioni subconscie che abbiamo acquisite tramite l’educazione della nostra prima infanzia non possono essere scartate con un rovescio di mano. Le vibrazioni mentali che porteremmo in tali luoghi non sarebbero in armonia con l’atmosfera. E’ esattamente come se qualcuno che non è musicista s’installasse in mezzo ad un orchestra e suonasse col proprio ritmo e nel proprio tono.

            Quasi tutte le religioni hanno delle regole ben codificate in quanto al cibo. La religione indù è una di quelle e si insiste molto sul fatto che un’alimentazione pura genera uno spirito puro.

            I difetti dell’alimentazione possono essere di tre tipi :

1- Jati-dosha, dovuto alla natura malsana del cibo stesso (liquori, carni, eccetera…)

2- Nimitta-disha, dovuto ad una sporcizia (insetto, capello, sozzura, eccetera…)

3- Ashraya-disha. Nella religione indù si crede che colui che prepara un cibo o tocca un cibo già preparato,  gli trasmette le proprie caratteristiche buone o cattive che siano. E’ per questa ragione che gli indù ortodossi sono autorizzati a mangiare solo il cibo preparato dagli indù, in certi casi da un membro della loro casta o di una casta superiore.

            Numerose e profonde sono le ragioni da cui derivano queste regole. Di fatti, sono il risultato dell’esperienza di tantissime generazioni. Ad ogni modo, queste regole e il sistema di casta che vi è connesso, sono parte integrante della religione indù. Una religione è come un grande tempio dove ogni pietra, ogni colonna, ha il suo ruolo nell’insieme. Che si sopprima una colonna e tutta la costruzione corre il rischio di crollare.

            E’ al riparo di questo grande albero, di questo baniano dell’induismo, che tanti Rishi, saggi e santi hanno potuto crescere e illuminarsi. E’ il sostegno di una cultura spirituale. Se quest’albero andasse scomparendo, sarebbe una grande, grandissima perdita per l’umanità.

            La comunità di nascita (famiglia, nazione, razza, eccetera…) non può praticamente dare adito a confusione. E’ evidente per chi ci pensa bene. Però ci sono ancora due differenze tra la comunità di nascita, così come la si immagina in Occidente, e la sua equivalenza in Oriente. La prima di queste differenze è che i saggi orientali pensano che non è per caso che nasciamo in un dato ambiente, ma che è la consequenza delle nostre azioni e desideri nelle nostre vite anteriori. La seconda è che in Oriente la razza e la religione non sono separate come in Occidente, ma sono praticamente una sola e unica cosa. La comunità di nascita è transitoria, e non dura al di là del corpo fisico.

Per la grazia del Signore, si è lasciata aperta solo la via della relazione spirituale portando all’Unità della Coscienza Universale.

            Portiamone gratitudine alla Guida Divina che risiede nel cuore di ognuno di noi.

                                                           (Prima pubblicato in ‘Ananda Varta’, Novembre 1957

                                                                                  Revisione Maggio 1987)