Le Cavalcature degli Dei

Simbolica animale nell’induismo

(‘L’Inde Intérieure’ p.114 - 127)

Sono felice di poter testimoniare del rapporto degli indiani con i loro animali. Non si      può pretendere da un paese povero, di un miliardo di abitanti, che abbia un’attitudine   uniforme di rispetto verso gli animali. L’ideale di non-violenza patisce di numerosi      strappi. Però, nell’insieme, si lasciano vivere gli animali, con un livello di libertà e di      convivialità difficili anche da immaginare per un Occidentale che non si è mai

avventurato nel sotto-continente.

L’India dei villaggi

            Per sentire bene l’attitudine che manifesta la cultura indiana riguardo agli animali, è necessario sapere che tuttora nella nostra epoca, i quarto quinti della popolazione del paese vivono in villaggi o piccoli agglomerati in zone rurali. Io stesso vivo in un villaggio considerato come sacro sulle sponde del Gange nel punto in cui le sue acque sgorgono dall’Himalaya. Comincerò col descrivere, in modo breve, la simbiosi dell’uomo e dell’animale così come la posso osservare qui, quotidianamente, prima di esaminare il ruolo degli animali nella tradizione indù. E poi, centrerò l’analisi sulla mucca, come si deve, e sul serpente, il che ci porterà alla meditazione sullo yoga, al risveglio della kundalini e all’esperienza non duale.

La cosa sorprendente negli animali di villaggio, è che sono al tempo stesso liberi e addomesticati. Le mucche vagano per le strade senza pastoie, mangiano quel che trovano, bucce di verdure, avanzi del mercato, erbe, foglie, eccetera…Passano ad orari regolari davanti alle case dove sanno che le daranno qualche cosa e poi, mattina e sera, il loro proprietario le ritrova e le munge. Anche i cani sono liberi, però hanno il loro territorio che difendono a furia di latrati che animano le notti indiane ; sono in genere clienti fedeli di qualche casa determinata. Succede di vedere alcune persone passeggiando con un cane al guinzaglio. Però questo fenomeno è recente e rimane assai raro. La norma rimane la libertà completa dell’animale.

Ho vissuto per più di un anno in un dharamshala (locanda religiosa) del diciottesimo secolo, al primo piano. Un bel giorno, la mucca dei guardiani del luogo ha avuto un vitellino. E’ stato del tutto naturale per loro installare madre e figlio in una camera contigua alla loro, al pianterreno…Ogni tanto si vede qualche toro enorme – animale particolarmente rilegato a Shiva – che infila la testa all’interno di una capanna che fa da sala da tè. In quel caso gli si dà alcuni ramoscelli di verdura e l’animale se ne va. Se insiste troppo pesantemente, basta gettargli un vaso d’acqua sul muso per allontanarlo. Siamo ben lontani dalla corrida ispanica, dove la paranoia della folla spinge l’animale ad uscire quando non viene ammazzato, come succede il più delle volte. In India il toro viene chiamato Nandi ‘quello che saluta’ e sta di fronte al lingam, la pietra eretta nei tempii di Shiva. E’ il modello stesso della devozione. Ci sono anche i maiali che si ingrassano mangiando il pattume. Sono ben rappresentati nelle strade, sebbene il villaggio dove abito, essendo luogo di pellegrinaggio, sia totalmente vegetariano. Nondimeno sono allevati per essere venduti ad un mattatoio che si trova poco lontano. Esempio dell’ambivalenza della situazione degli animali in India : sono protetti dalle comunità indù di date caste e consumati da indù di altre caste. Anche se non vengono ammazzati, non per tanto sono assicurati di mangiare a sazietà in questo paese dove buona parte della popolazione non ha di che nutrirsi correttamente nonostante il fatto che le grandi carestie appartengono al passato.

La questione dei mattatoii rimane litigiosa. Di recente, un grande mattatoio di Delhi è stato chiuso, per ragione di salubrità. Ma la ragione vera, più profonda, è che le comunità indù e jaina consideravano come un loro dovere il proteggere le mucche contro la macellazione. Leggo i quotidiani in lingua hindi e non più tardi di ieri, ho saputo di un movimento di protesta che si è creato a causa di un progetto di mattatoio nelle vicinanze di una città di media importanza, poco lontana da qui. Oggi, c’era un articolo di fondo a proposito di un decreto appena passato per limitare e regolare le prove di laboratorio sugli animali in tutta l’India. Gli autori erano fieri che il loro paese fosse il primo in Asia ad essersi preoccupato di questo problema. Nel momento in cui rileggo questo articolo per la pubblicazione del mio libro ‘L’Inde Intérieure’, mi ricordo di un fatto riportato dai giornali, nel duemila credo. Vi si annunciava trionfalmente che ottocento bovini erano stati salvati dal mattatoio. Un treno intero di bestiame si era fermato nella stazione di Agra, vicino a Delhi. Il personale delle ferrovie avendo avuto l’idea di controllare i documenti di quel convoglio, hanno constatato che non erano in regola e che si trattava di un traffico illecito di bestiame. Hanno arrestato la mafia che l’aveva organizzato, e portato i bovidi in una go-shala, una stalla a vocazione sia ecologica che religiosa, che s’impegna a trattare bene questi animali seguendoli fino alla loro morte naturale.

Questa storia può sembrare pazza, ma non credo sia più pazza di quella moltitudine di mucche affibbiate dello stesso qualificativo e che tutta l’Europa ha dovuto abbattere. Certo la carne è fonte di proteine, ma anche il latte o le lenticchie. L’India è esportatrice di cereali : con una migliore organizzazione potrebbe essere autosufficiente sul piano delle proteine vegetali. Ci si può interrogare in quanto alla razionalità di un’economia in cui i paesi poveri coltivano delle cereali utilizzate per ingrassare a grandi spese il bestiame dei paesi ricchi, mentre i loro propri cittadini soffrono la fame. Inoltre, bisogna sottolineare che ci sono pochi grossi mangiatori di carne in India. Essere non-veg come dicono loro per ‘non vegetariano’, significa in genere mangiare un po’ di carne di pollo o di capra una volta a settimana. Eppure, l’India è il paese dei paradossi. Mentre una maggioranza della popolazione è contro la macellazione delle mucche, quelli che compiono quell’atto lo fanno in maniera crudele al punto di essere internazionalmente condannati.

Per capire quell’attitudine dell’India nei confronti degli animali, bisogna esplorare le radici della sua cultura.

Degli animali che veicolano una tradizione

            Agli inizi della civiltà indiana, durante il periodo vedico, la religione era centrata sul culto del fuoco e i sacrifici di animali. In ciò aveva molto in comune con le altre religioni indo-europee. In seguito ha avuto luogo un processo d’interiorizzazione del sacrificio nei più mistici, la cui espressione si ritrova nelle Brahmana e le Upanishad. Il buddismo e il jainismo hanno escluso i sacrifici animali per essere coerenti con il loro insegnamento di non-violenza (ahimsa) e, al tempo stesso, fare l’economia di una casta di preti bramani responsabili di questo genere di rituali e pesantemente attaccati alle sue prerogative. Il vishnuismo ha ripreso l’ostracismo sul sacrificio animale. Vishnu si è incarnato sotto forma del bambino Krishna chiamato Gopal, il ‘guardiano di mucche’. Il tantrismo invece, ha proseguito i sanguinosi sacrifici, come per esempio, i sacrifici di capre alla Madre Divina. C’è un episodio strano nella vita di Mâ Anandamayî. Da giovane, viveva nel Bengala, e un giorno una capra sul punto di venir sacrificata, viene a rifugiarsi accanto a Lei. Mâ l’accoglie con amore e per far sentire alla gente che la circondava la sua opposizione a quel sacrificio, mette il coltello preparato per sgozzare l’animale sulla propria gola.

            L’essere umano stesso è descritto nel shivaismo come pashu ‘colui che è legato’, nome che, di solito, si riferisce al bestiame. E’ guidato e finalmente salvato da Pashu-pati ‘il maestro del bestiame, e cioè il Signore. Le divinità inferiori possono temere che gli uomini si liberino, perché saranno come delle ‘teste di bestiame’ scappando dal gregge e dal proprietario di quel gregge. Nel contesto della trasmigrazione – un fondamento della visione del mondo in India – ogni essere umano è stato un animale nelle sue vite anteriori. Se è crudele, corre anche il rischio di ricadere al livello della bestia. Ciò può anche accadere se è troppo attaccato ad un dato animale. Si racconta che il saggio Jada Bharata amava particolarmente un daino che aveva addomesticato al punto di pensare a lui piuttosto che a Dio al momento della morte. Il risultato fu che si reincarnò in daino…

            Dietro la nozione di trasmigrazione si trova il concetto non dualista che ispira le intuizioni mistiche e filosofiche maggiori dell’India. Il mondo è fatto di una sola sostanza che è anche pura coscienza. In un tale contesto, come potremmo immaginare che gli animali sono stati creati unicamente per il nostro consumo ? Per meglio afferrare il rapporto che fanno gli indù tra animale e sacro, bisogna sapere che ogni dio ha il suo animale esclusivamente riservato – nelle religioni animiste si parlerebbe di ‘cavalcatura’, in sanscritto si parla di vahana, il veicolo. Abbiamo visto che Shiva era collegato al toro. Vishnu, in quanto a lui, è servito dall’aquila Garuda. Sârasvâti, dea della conoscenza, della memoria e della musica, il cui nome significa ‘Colei che va sui corsi d’acqua’, è rappresentata in compagnia di un cigno. Anche se non si può parlare di cavalcatura, si può segnalare il legame privilegiato che unisce Hanuman, la scimmia, alla coppia di Râma e Sîtâ. Hanuman è rappresentato come il fedele per eccellenza, che, aprendo il suo cuore, fa vedere il viso dei suoi maestri Râma e Sîtâ. E’ al tempo stesso il modello del celibato e del servizio. E’ uno degli dei più popolari dell’India, capace di liberare del loro male i soggetti perturbati psichiatricamente.

            C’è dietro tutto questo una comprensione della vita psichica. Le deviazioni della forza sessuale e il rinchiudersi dentro l’egoismo sono due grandi fonti di sofferenza mentale. E’ dunque normale che il dio della castità e della devozione aiuti a liberarsene. Anche il cane corrisponde ad un dio, Bhairava, la forma terribile di Shiva, guardiano dei tempii, protettore dei villaggi e padrone dei poliziotti.

            Per concretizzare il rapporto tra saggezza, non-dualità e amore degli animali, possiamo riferirci al libro sulla vita di Râmana Maharshi scritto dal suo discepolo Arthur Osborne. Dedica un capitolo interessante al rapporto del saggio con gli animali. Non designava un animale con la forma neutra come si usa in lingua tamul o inglese, ma al maschile o al feminile secondo il caso. Ai suoi  inizi, meditava sulla collina, quando un giorno un serpente venne ad arrotolarsi sulle sue ginocchia. Non ebbe nessuna reazione. Un fedele gli domandò ciò che aveva provato. Si mise a ridere e disse : « Era freddo e morbido. » Un’altra volta, sua madre prese una grande paura alla vista di un cobra. Râmana andò verso il serpente. Quest’ultimo fuggì passando tra due rocce. Il saggio si mise a seguirlo fino al momento in cui il serpente, stretto al estremità del passaggio, si rivolse, si raddrizzò e lo guardò. Il saggio lo guardò anche lui. La cosa durò diversi minuti, fino a che il cobra si srotolò posandosi sul suolo e, non sentendo più la paura, se ne andò passando vicinissimo ai piedi del saggio.

            C’erano quattro cani nell’ashram, e come i discepoli, non volevano toccare nessun cibo prima che Râmana stesso ne abbia mangiato (questo cibo che diventa allora sacro, viene chiamato prasâd). Alcuni brahmani fecero una prova offrendo del cibo a quei cani. Râmana ne dovette prendere un po’ perché accettassero di mangiarlo. La regola dell’ashram era di nutrire prima i cani, poi i mendicanti e infine i membri dell’ashram.

            Râmana Maharshi aveva un modo tutto suo per chiamare i pavoni e nutrirli, modo che poteva sorprendere quelli che pensavano che un saggio vedantino doveva essere perfettamente silenzioso : si accontentava di imitare il loro grido stridulo. Aveva sempre presso di lui, quando riceveva la gente, una scatola di arachidi per gli scoiattoli. Daltronde è il fatto di aver voluto salvare uno scoiattolo che gli valse una frattura della gamba verso la fine della sua vita. Era uscito a passeggiare, poggiato sul bastone che gli era divenuto necessario. Ad un tratto vide passare vicino a lui un cane che rincorreva uno scoiattolo che stava per acchiappare. Râmana lanciò il suo bastone per deviare la corsa del cane. Lo scoiattolo si salvò ma lui cadde e si ruppe una gamba. Ma l’animale al quale è stato il più attaccato è stata la mucca Laxmi. Quando questa fu sul punto di morire, andò accanto a lei, mise la testa della mucca sulle sue ginocchia, la guardò molto a lungo negli occhi posando le mani sulla sua fronte come se le stesse dando l’iniziazione. Dopodiché la mucca morì serenamente. La fece seppellire con i rituali tradizionali e fece incidere sulla sua tomba che aveva raggiunto la Liberazione. Uno dei suoi discepoli gli domandò se si trattasse di un eufemismo per dire che era morta, ma lui rispose che voleva veramente dire che aveva raggiunto la Liberazione. Il monumento si vede ancora all’interno dell’ashram di Tiruvanamalai. C’è un elemento interessante da conoscere : ebbe più o meno lo stesso comportamento con sua madre, il giorno in cui morì : « Per due ore sua madre fu distesa lì, respirando con grande difficoltà, tutto ciò mentre Bhagavan era seduto di fianco a lei, la mano destra sul suo cuore e la mano sinistra sulla sua fronte. In quel momento non si trattava più di prolungare la vita ma di appagare lo spirito affinché la morte  possa essere mahâsmâdhi, assorbimento nel Sé. » Più in là un samadhi (sepolcro) e un tempio furono edificati per lei nell’ashram, perché Râmana riteneva che aveva raggiunto videha-mukti, la realizzazione al momento della morte.

La mucca, la dea e il Sé

            Dire che la mucca è sacra in India corrisponde a un ‘cliché’, a un luogo comune, a un’ ‘immagine fatta’, banale (una sorta di ‘televisione di Epinal’ [1] per riprendere l’espressione di Guy Deleury che ha messo in epilogo al suo libro Le Modèle Hindou (Il Modello Indù), un bestiario in cui evoca gli animali dell’India). Per cominciare ‘diamo a Cesare quel che è di Cesare’ : il non portare le mucche al mattatoio risulta certamente essere una funzione economica positiva. Marvin Harris ha spiegato la logica della cosa : le mucche servono non soltanto a fornire il latte o a trainare gli aratri ed ogni sorta di carri, ma producono anche quantità di sterco che, disseccato, rappresenta un combustibile importante nell’economia campagnola, nella misura in cui la legna è rara e cara. Anche l’urina di mucca viene utilizzata per le sue proprietà disinfettanti. I cinque prodotti della mucca (il panchagavya, il latte, il cagliato, il ghî o burro chiarificato, l’urina e lo sterco) sono alla base di una sorta di alchimia simbolica, come lo mostra Jean Biès nel suo bel libro sull’India Les Chemins de la ferveur (Le vie –i sentieri- del fervore).

            Inoltre le mucche contribuiscono, insieme ai maiali e ai cani, alla nettezza dei villaggi, eliminando tutti i detriti commestibili. Lì, nell’ambiente rurale, i detriti non commestibili come plastica e barattoli vari sono piuttosto rari. La mucca, con il suo vitellino, è anche l’animale domestico per eccellenza. Certi vicini miei possedevano una vecchia mucca zoppa. Quando si sedevano davanti a casa loro, stava lì anche lei. Aveva il suo posto nel cerchio familiare sul bordo della strada. E’ durato per anni, fino alla sua morte.

            La mucca, nella misura in cui allatta, è totalmente associata all’archetipo della madre. Ma può anche venir paragonata al guru : trae il suo nutrimento da diversi luoghi e dà un latte unico. Allo stesso modo, il guru si forma studiando diversi testi, incontrando diversi uomini di Dio e compiendo differenti pratiche. Ma il suo latte, l’insegnamento che dà, è unico e sano, e può essere bevuto direttamente. Il buon discepolo è paragonato al vitellino che viene a prendere il latte solo quando ha fame, altrimenti rimane a giocare e saltellare nei prati e lascia sua madre tranquilla. Il cattivo discepolo, lui, è come la zanzara che non finisce mai d’innervosire la mucca e di punzecchiarle la mammella per succhiarne il sangue. E’ perché rappresenta la continuità della tradizione che la mucca non deve essere ammazzata. Non trasmettere ciò che si è ricevuto costituisce, in linea d’insegnamento, il peccato più grave, equivalente ad ‘ammazzare la mucca’. Questa sintetizza il migliore di quel che mangia, sotto forma di latte, il migliore del latte è il burro, il migliore del burro è il ghî (burro chiarificato, sbarazzato delle proteine e che, per questo fatto, può essere conservato molto a lungo). Non è sorprendente che questo ghî sia altamente considerato nella dietetica ayurvedica e che venga giudicato come l’offerta di scelta nei sacrifici al fuoco. Il profumo di grasso bruciato che emana in quel momento ne fa un equivalente del sacrificio animale, però senza messa a morte. Con il suo colore bianco, il ghî evoca la luce interiore e il rasa, la linfa essenziale di ogni cosa, e cioè il Sé.

            Una figura importante della mucca è Kâmadhenu, quella che esaudisce tutti i desideri (kâma). La sua funzione è la stessa di quella di kalpataru, l’albero degli auguri. E’ un’analogia della forza del Divino che risponde da specchio al nostro proprio spirito. C’è in questo un’immagine di una realtà che fonde il messaggio delle religioni e delle spiritualità. Quel che si desidera veramente nel dominio interiore, alla fine si ottiene. Il principio della panacea che funziona assai poco nella vita di ogni giorno, funziona bene quando si sa applicarlo con intelligenza e perseveranza al campo spirituale, poiché la nostra psiche è eminentemente plastica. Il fatto, appunto, che questa sia complessa, rende tanto più utile l’uso di strumenti semplici per operarci. Dopo tutto, i chirurghi che operano nel corpo umano, usano principalmente i bisturi, le forbici, gli aghi e il filo…la necessità di tornare regolarmente ad uno stato semplice  dalle potenzialità infinite è stato proprio sottolineata nei metodi pratici di psicologia moderna, per esempio la Programmazione neuro-linguistica, dove si parla di ‘stato-risorsa’.

            Nei Veda, le dee-madri, spesso sono presentate comme delle ‘mucche divine’ che allattano gli uomini. Il latte può essere associato al soma, che si può intendere, o come una pianta che procura degli stati modificati di coscienza, o come l’esperienza di apertura dei canali e dei centri di energia al livello del corpo sottile. Usha, la dea dell’aurora, è vista anche lei come una mucca : dalla sua mammella (il cielo rosato dell’oriente) esce il latte bianco (la luce dell’alba). Questo nesso tra il latte e la Dea-madre persiste nell’India moderna. Così, per esempio, la rete di distribuzione di latte fresco e di latticini a Delhi, si chiama Mother Dairy ‘Caseificio della Madre’.

            Torniamo all’India antica. Allora, il re era responsabile della fecondità della terra, essendo quest’ultima, considerata come una mucca che lui doveva mungere, rendendo possibile una buona produzione agricola con i sacrifici agli dei. In Orissa e nel centro dell’India,  all’occasione della festa delle luci (Dîpavalî) nella quale si onora Laxmî, la dea della Fortuna, i contadini compiono un rituale davanti a dei mucchi di sterco di vacca che serviranno di concime per i campi. Si parla molto in Occidente di sacralizzare il vivere quotidiano. Gli indù vivono questo, giorno dopo giorno, con dei mezzi semplici senza farne una montagna…La mucca è il solo animale veramente sacro in India, nel senso che è il solo la cui messa a morte attira una maledizione.

            Abbiamo già parlato del toro Nandi, la cavalcatura di Shiva. Quel nome significa : « Quello che si rallegra, o rallegra, o saluta ». Sta davanti alla porta della critta dove si trova il linguam di Shiva e lo saluta con lo sguardo. E’ il simbolo della forza sessuale animale affascinata in meditazione dall’apparizione del Divino, e poi trasmutata, verticalizzata alla maniera del lingam.

            La mucca è anche per gli indù l’archetipa della pratica perseverante. Ne è testimone la storia che segue : « Un bambino era nato nella foresta, e i suoi genitori l’avevano affidato alla gente di un piccolo ashram. Adolescente, andò per la prima volta in un villaggio. Aveva spesso sentito parlare di quelle mucche meravigliose che davano un latte nutriente ed era avido di vederne una. Sulla piazza del villaggio, c’era la statua di una mucca. Pensò : « Quattro zampe, una grossa testa, ecco finalmente la mucca di cui ho sentito tanto parlare ! » Vicino, un uomo si apprestava ad imbiancare la sua casa con della calce e aveva lasciato una tinozza piena di calce dissolta nell’acqua : « Ecco il latte ! Mi hanno detto che era un liquido tutto bianco ! » si disse il ragazzo. E si mise a berne a lunghi sorsi. Inutile dire che quando tornò dal suo maestro era assai malato. Si lamentò amaramente presso quest’ultimo che gli disse : « Hai visto una mucca, certo, però hai pensato a mungerla da te ? »

            Queste storie di mucche sacre fanno ridere l’Occidente, però non realizza che anche lui ha i suoi animali sacri. Dal mile ottocento settantuno (1871), in seguito a certe esperienze brutte durante l’assedio di Parigi, una legge vieta ai macellai la vendita di carne di cane. Per gli inglesi, la sola idea di macelleria equina è un’eresia che gli dà il voltastomaco. E, sia in Francia che in Inghilterra, servire al cliente carne di gatto è una mostruosità che può venire in mente solo ad un cuoco cinese crudele, disonesto e perfettamente incivile – tale è al meno il cliché ancorato nella mente popolare. Tutti noi abbiamo i nostri tabù alimentari, tanto più pregnanti che non sono mai rimessi in questione. Già prima della faccenda della mucca pazza, la macellazione industriale degli animali per la vendità della carne non ha mancato di urtare coloro che volevano essere relativamente coerenti nella loro scelta di non-violenza. Il cristianesimo ha detto che veniva a mettere fine agli olocausti con il sacrificio di Cristo. Ma questo ha avuto per effetto una desacralizzazione della messa a morte degli animali, il che non era affatto buono per la serenità della psiche profonda dell’uomo. Sempre più numerosi sono gli adolescenti che optano per l’alimentazione vegetariana. Forse sentono confusamente di essere connessi all’inconscio collettivo di fronte alla violenza, ciò che Tolstoï riassumeva in una formula perlomeno lapidaria : « Fin quando ci saranno dei mattatoi, ci saranno delle guerre ».  Di certo i mangiatori di carne obietteranno che ci sono dei vegetariani violenti, a cominciare da quelli che disprezzano i vegetariani. E’ vero. Ma sarebbe troppo se una pratica potesse, da sola, estrarre questa violenza dal cuore dell’uomo. Il vegetarismo è una specie d’impegno iniziale. Anche non essendo un grande mistico, almeno questo si potrebbe fare.

            Si può raffrontare questo cambiamento di mentalità – a proposito della violenza verso gli animali in una parte della popolazione – al progresso della credenza nella reincarnazione : in Gran Bretagna, per esempio, per 31% (trentuno per cento) della gente – meno negli anziani 22% (ventidue per cento), di più nei giovani 38% (trentotto per cento) questa credenza è condivisa. Se si collega questo con un movimento di fondo in favore dello hatha-yoga e del buddismo in un Occidente considerato superiore all’Oriente sul piano del progresso materiale, ciò può far pensare al fenomeno storico dell’Antichità : Roma ha conquistato materialmente la Grecia e la Palestina, però è stata conquistata a sua volta dalla filosofia greca e da una forma religiosa nata dal giudaismo. Nessuno sa di che sarà fatto l’avvenire, però ciò non toglie che viviamo un’epoca interessante. Torneremo su questo argomento nell’ultima parte.

Dal culto del serpente alla metafisica non duale

            Il serpente è un animale potentemente archetipale. Si dice che anche gli Esquimesi ne sognano, anche se non ne hanno mai visti. Il fatto che perdano la loro pelle nel periodo della muta allorché continuano a vivere, anche il fatto, forse, che si arrotolino su sé stessi, ne fanno un simbolo di primo piano per evocare il ciclo del tempo. E’ anche un simbolo della forza della terra e della forza sessuale, domata da un dio come Shiva che porta il serpente addomesticato a mo’ di collare.

            Un ordine di monaci erranti shivaiti porta il nome di nâgas ; si dice che è per via del loro bastone a tortiglione, a forma di serpente (nâga significa all’origine ‘cobra’). Trovano quei bastoni nella valle del Gange himalayano. Spesso questi nâga vivono quasi nudi (d’altronde ‘nudo’ si dice nanga, parola dalla risonanza simile a nâga). Sono conosciuti per la loro capacità a manipolare le armi e possegono dei poteri magici. Quando celebrano le kumbha-mela dove si radunano millioni di pellegrini, i loro novizi prendono l’iniziazione e sono i primi ad immergersi nelle acque del Gange, completamente nudi. Formano allora una processione di cento o duecento persone accompagnate da altri nâga a cavallo, armati di spade, in genere completamente nudi anche loro.

            Il serpente, in particolare il pitone, viene paragonato al saggio, nel senso che aspetta il suo cibo rimanendo immobile, come in samâdhi. Il serpente nella neve sembra morto, ma si sveglia quando la temperatura risale. Evoca il mentale del meditante, mentale che quest’ultimo crede di aver dominato durante i ritiri prolungati, ma che si manifesta di nuovo, in modo perturbante, quando si ritrova nel mondo. All’epoca dei Romani, esisteva un legame tra il serpente e l’autorità del pater familias. Allo stesso modo, in India, c’è un legame tra il serpente e gli occupanti della casa. Ancora oggi, in alcune dimore in India, la presenza di un serpente addomesticato (vastu-sarpa) è considerata come un fatto favorevole. Si trovano frequentemente in campagna, al piede degli alberi, delle pietre con, incise sopra, delle figure di serpenti. Le donne ci vengono a pregare per avere dei bambini. Allo stesso modo, nel culto di Demeter, in Grecia, si gettava un serpente, simbolo maschio, in una grotta, simbolo feminile, per assicurare la fecondità della natura.

            Il legame tra serpente e immortalità spiega che sia legato all’arte della medicina (e al caduceo d’Esculapio nella cultura greca). E’ il serpente Ananta (‘infinito’) o Shesh-nâg (‘il serpente che riposa’) sul quale dimora Vishnu prima della creazione del mondo. Quest’ultimo dorme tra due cicli, poi sogna e da questo sogno viene fuori un mondo nuovo. In certe rappresentazioni della danza cosmica di Shiva, il circolo esterno sul quale irraggiano le fiamme, è di fatti un serpente con una testa ad ogni estremità. Il serpente Ananta sputa il fuoco distruttore che riassorbisce il mondo alla fine di un ciclo.

            Questo ci porta a parlare del serpente della Kundalini, parola che significa : « Quella (dea) che è arrotolata alla base del corpo ». Benché la sua energia sia universale, si medita su di lei all’interno del corpo per facilitare la concentrazione. E’ arrotolata tre volte e mezzo intorno ad un lingam al livello del bacino, quel che significa che rappresenta il Sé, testimone dei tre stati di coscienza (risveglio, sogno e sonno profondo) o dei tre corpi (fisico, sottile e causale). Quando questa dea-serpente si mette in moto, un processo di creazione interiore prende inizio. Allo stesso modo, quando venne creato il mondo, il serpente Ananta era stato arrotolato intorno al Monte Meru e mosso dagli dei e i demoni per burrificare il mare di latte ed estrarne il soma e tutto il mondo manifestato. Il serpente anteriore alla creazione, sul quale Vishnu è coricato, è orizzontale, come diluito nell’oceano primordiale ; il serpente della Kundalini, lui, è eretto in un’attitudine d’individuazione. Quando l’essere umano si sente in regressione, si curva in avanti. Invece si raddrizza quando abbandona l’attitudine regressiva. Questo raddrizzarsi corrisponde alla trasmutazione dell’energia sessuale nonché alla collera. Allo stesso modo del cobra che si rizza, affascinato dall’incantatore di serpenti, l’energia vitale è allo stesso tempo risvegliata e come ipnotizzata dall’oggetto della meditazione, almeno in colui che sa praticare. La parte superiore del cobra che si allarga, evoca l’arrivo di energia al livello delle scapole, che vengono stimolate dall’apertura dei due canali laterali ida e pingala, il cui risveglio precede l’apertura del canale centrale, sushumna. Il dente velenifero del serpente evoca l’âjnâ, tra le due sopracciglia, dove i tre canali di energia confluiscono per dare al meditante l’esperienza dello yogânanda, di questa felicità dell’unione simbolizzata anche nel caduceo, dal serpente che beve nella coppa. In quel momento, il mentale raggiunge il riposo totale, dicono gli yogi, poiché ottiene quell’unione completa che cercava all’origine (urdhva-kundalini) e la sua visione del mondo ne viene trasformata. Vede la terra intera come il dominio di questa energia drizzata (urdhva-kundalini-bhûmî).

            L’immagine classica di questa trasformazione portata da questo risveglio dell’energia è Vasuki (spesso identificato ad Ananta), il re dei cobra (nâga), che ha un corpo di serpente e una testa umana. Trasmutando l’energia vitale di base, la meditazione umanizza. Per allargare la visione di questa energia fino al momento della dissoluzione ciclica del mondo, si può evocare l’immagine della terribile dea Chamunda, che danza accompagnandosi con uno strumento di musica gigante il cui asse è il Monte Meru, la corda, il serpente Ananta e la cassa di risonanza la falce di luna. Si tratta di uno schema strutturalmente analogo alla creazione del mondo con la burrificazione del mare di latte, però questa volta, il serpente dell’energia si è completamente raddrizzato, la Coscienza si è risvegliata.

            Nel mondo biblico, si tende ad identificare il serpente in maniera univoca al Maligno e al peccato dalla creazione del mondo. In seguito la Vergine è venuta e l’ha schiacciato. E la storia finisce là in qualche modo, su quello schema dualista non privo d’influenze manichee. In India, l’energia del serpente è utilizzata, il serpente è verticalizzato e crea un nesso potente tra l’inferiore e il superiore. E’ la corda unica dello strumento di musica (ektar) che conduce la danza cosmica. Penetra l’universo intiero con la vibrazione della non-dualità.



[1] Epinal è una città nell’est della Francia in cui le ‘images d’Epinal’ sono famose dal dicianovesimo secolo. Allora erano stampe ad uso popolare rappresentando in stile ‘naif’, semplicistico, qualche fatto o avvenimento.