Jacques Vigne – Un itinerario

(‘L’India interiore’ p.10 - 13)

            Quando ripenso a l’itinerario di vita che mi ha portato fino in India venti anni fa e a rimanerci, vedo in questo, senza alcun dubbio, un filo direttore.

            Già nella mia adolescenza, la vita interiore aveva per me una grande importanza. Era in parte connessa con la mia formazione cattolica anche se la oltrepassava vigorosamente da tutte le parti. A diciasette anni ho cominciato lo hata-yoga e, dopo qualche anno, la meditazione regolare quotidiana. Parallelamente, la pratica del canto gregoriano e la frequentazione di luoghi di vita monastica benedettina come ospite, hanno nutrito la mia vita interiore. I miei studi di medicina mi hanno portato in modo naturale a pormi delle domande sul rapporto tra corpo e spirito ed è questo che mi ha condotto a dedicarmi agli studi di psichiatria. Non è che avessi una passione per la psicopatologia in , però era il modo più naturale, a partire dal tronco comune degli studi di medicina, di interessarmi allo spirito. In realtà il contatto diretto con i pazienti che soffrono di seri disturbi mentali è una lezione di spiritualità pratica sull’importanza della padronanza del proprio spirito, se non altro per evitare grossi problemi psichiciDopodiché mi sono ritrovato per quindici mesi a praticare psichiatria in Algeria, esperienza che mi ha dato una migliore percezione dei problemi sociali e familiari che si possono incontrare in una società musulmana. Inoltre ho frequentato unatariqa sufi, il che mi ha aperto il cuore alla dimensione mistica dell’Unità, anche se nello stesso tempo mi ha aperto gli occhi sulla difficoltà di esprimere l’esperienza spirituale in un sistema religioso e ideologico a tendenza totalitaria.

            La tappa successiva è stata la scoperta dell’India, grazie, in questo caso, a delle borse di studio franco-indiane. Tengo a sottolineare che non sono convertito al culto degli dei indù, né impegnato in un qualche partito politico di quell’India dove scrivo. Sono venuto in questo paese per ragioni spirituali e porto avanti la mia ricerca della verità. La mia via è sopratutto quella dello yoga e del Vedânta, però sono ugualmente aperto ad altri approci e alla realtà dell’India quotidiana. Quest’ultima mi ha già penetrato per osmosi, ma anche per la lettura della stampa che adesso leggo quasi sempre in lingua hindi. Faccio notare ai lettori ignari dei dati statistici che l’hindi è parlato quotidianamente da mezzo milliardo di persone, anche se non è la madrelingua di tutti.

            Evidentemente ho letto dei libri di universitari che forniscono la conoscenza di base e che hanno il vantaggio di essere sistematici. Mi succede anche di leggere degli studi più precisi di ricercatori su certi argomenti dati, ma nell’insieme la mia esperienza dell’India si nutre degli insegnamenti tradizionali nonché di fatti e situazioni vissuti ‘in diretta’. Nel villaggio vicino al quale si trova l’eremitaggio dove vado in Himalaya, c’è una sola persona che io sappia, in grado di parlare corettamente in lingua inglese. A tre ore di marcia, in una piccola vallata chiusa, si trova il tempio millenario di Jageshvar, un nome di Shiva che si può interpretare comeSignore del Risveglio o del mondo’. Essendo Shiva particolarmente connesso allo yoga e la meditazione, si può dire che queste pratiche partecipano al risveglio del mondo, o al mondo del risveglio. Da mille anni viene recitato quotidianamente lo stesso mantra sotto le volte di questo santuario. Si tratta, per coloro che lo conoscono, del mahâ-mrityun-jay mantra ‘il mantra che salva dalla morte’. Inutile dire che quando vi si penetra con un minimo d’apertura di cuore, si sentono, nel sottile, le pietre che vibrano. Ad un centinaio di kilometri, in linea d’aria, dalla cima sulla quale si trova l’eremitaggio dove scrivo e pratico, si trova il Nepal ad ovest e il Tibet a nord. Il Monte Kailash si trova a soli trecento kilometri, circa. Rappresenta il più grande luogo di pellegrinaggio buddista, indù e giaina.

L’India dove vivo

            Rivedendo quelli anni sulla terra dell’India, mi tornano in mente le immagini di tre anni a Benares passati ad iniziarmi alla cultura tradizionale del paese. Questa città facendomi da base, ho girato il paese ed esplorato gli ashram osservando la vita che vi si svolgeva. Ho incontrato insegnanti e discepoli. Tutto ciò mi ha dato un’esperienza di prima mano della tradizione vivente dell’India di cui ho parlato nel mio libro ‘Le Maître et le Thérapeute’ (Il Maestro e il Terapeuta). E’ diventata per me una serie di visi, o meglio, un insieme prezioso di sorrisi. La mia scoperta della tradizione non avveniva più attraverso i libri ma attraverso tanti incontri ed esperienze dirette. Molta gente in Occidente tende ad associare tradizione a rigidezza e passatismo, quando è un nutrimento, un’esperienza del presente, se vissuta con amore. E’ quest’amore che fa tutta la differenza. E poi passai nove anni a Kankhal, un grosso villaggio antico sulle sponde del Gange nelle vicinanze di Hardwar, una città considerata il secondo luogo santo d’India. E’ stato per me l’occasione di un approfondimento dell’insegnamento spirituale indù. Abitavo vicino all’ashram di Anandamayî e ogni giorno incontravo il suo discepolo francese da lunga data, Vijayânanda, con il quale ho mantenuto finora frequenti rapporti.

            Non posso parlare dell’India senza ricordare le lunghe gite e i pellegrinaggi a piedi attraverso l’Himalaya. A questo proposito, cinque mesi fa sono andato a visitare un luogo di pellegrinaggio isolato nella regione di Kedarnath, poco distante dal Tibet. Occorrono due giorni, dopo la fine della pista, per raggiungerlo. E proseguendo al di sopra del vecchio tempio di Shiva, ci si ritrova completamente accerchiato dalle cime nevose dell’Himalaya. Tra l’altro quelle del Chowkambha, che oltrepassa i settemila metri. Si può vedere fino a trenta o quaranta kilometri. Però non si distinguono ne case ne villaggi, poiché sono nascosti in fondo alla vallata. Uno non può che trovare giustificato il nome di questo tempio, Madhyamaheshvar ‘il grande dio del mezzo’ (della via del mezzo).