GIOIA

(‘Soigner son âme’ p. 395 – 402)

                                                           « Chi mai respirerebbe, chi mai vivrebbe se non

                                                           ci fosse questa felicità nello spazio ? »

                                                                                         Taittiriya Oupanishad, 2-7

Può sembrare strano il fatto di dedicare un capitolo alla gioia in un libro che tratta di psicologia, visto che quest’ultima non ne parla, come se si trattasse di una nozione rimossa. Perché mai ? In primo luogo, a parer mio, è perché la gioia non si presta bene all’analisi, essendo uno stato a sé. E poi, perché la gioia è legata ad uno slancio che porta al di là delle complicazioni mentali, mentre la psicologia corrisponde piuttosto ad un tentativo per esplorarle. Nelle tradizioni spirituali invece, la gioia occupa un posto centrale. Nel cristianesimo si parla di ‘gaudium’, la gioia spirituale, la gioia di essere, all’opposto di ‘laetitia’ che si riferisce piuttosto alla fecondità, la ricchezza e il piacere di possedere. Le parole di San Paolo : « Gaudete in Domino semper » (Rallegratevi nel Signore, costantemente) sono cantate regolarmente dai monaci. Facevano quasi da mantra agli eremiti del deserto di Gaza, come lo si può vedere nelle lettere di Barsanuphe e Giovanni. Per il buddismo theravada, la gioia è una fase, una concentrazione (jhana) dello sviluppo interiore.

Fuori dal campo tradizionale, gli scienziati provano anche loro una gioia profonda nella conoscenza. Diceva Einstein : « La gioia di guardare e di capire è il più bel regalo della natura. » Nella via mistica detta ‘della Conoscenza’, si eleva la conoscenza del campo delle leggi della natura a quello dell’Essere.

Abbiamo detto che la psicologia si preoccupava poco di introdurre la nozione di gioia nelle terapie. Tuttavia, Boorstein, autore di un articolo interessante nel ‘Journal de psychologie transpersonnel’  intitolato ‘La psychothérapie au cœur léger’, (La psicoterapia dal cuore leggero), introduce nelle sue sedute delle storie umoristiche sufi, brevi riflessioni suggerendo che la vita è un sogno, o che i problemi non risolti in questa vita lo saranno in quelle successive. Ho utilizzato, in quanto a me, delle storielle di saggezza, spesso umoristiche, nelle sedute di psicoterapia e ho notato molte volte che in quel momento l’interesse dei pazienti si risvegliava tutt’all’improvviso.

Oltre al libro di Moody sulla guarigione tramite il ridere, Norman Cousins ha raccontato che aveva guarito da sé una malattia reumatologica con il pensiero positivo nonché rinchiudendosi in una stanza per guardare regolarmente dei film comici. (cf. ‘La Volontà di guarire’ e ‘La Biologia della speranza’).

Ho scritto nel capitolo sull’attenzione, che l’estasi guariva. Anche la gioia. Mi torna in mente la storia di quest’alcoolizzato incontrato durante una mia visita in un centro di disintossicazione in Polonia dove mi avevano chiesto di fare un seminario su ‘Meditazione, Yoga e Psicoterapia’. Tempo dopo quell’uomo rappresentava la riuscita più probante del centro : non solo era guarito ma tornava pure sul posto per aiutare altri pazienti a venirne fuori. Credeva in Dio, ma senza settarismo, e quando gli ho chiesto cos’era che lo aveva aiutato di più, mi ha semplicemente risposto : « La gioia ». Quando ci si pensa, la gioia, se la si sa svegliare, è un rimedio fondamentale per delle patologie tanto numerose quanto diverse che vanno dalla psicastenia e l’ossessione, alla dipendenza e l’assuefazione, fino all’ipocondria e, in una certa misura, alle malattie legate ad un abbassamento dell’immunità.

Se l’analisi della gioia è così difficile, è perché rappresenta il fondale stesso. In questo senso non ci può essere psicologia della gioia. Basta ricordare che la psicologia è l’esplorazione delle complicazioni mentali per realizzare infatti che non ci può essere neanche una gioia della psicologia. La gioia ha un’esistenza a sé, altrimenti è solo divertimento.

La felicità (ananda) nei testi dell’induismo

            La menzione della felicità torna spesso nelle Upanishad. E’ associata alla non-dualità : « Un oceano, un Vedente unificato, sprovvisto di dualità diventa colui il cui mondo è Brahman…E’ la via più elevata per l’essere umano. E’ la riuscita  più elevata. E’ la felicità  più elevata.  Le altre creature non vivono che di una parte di questa felicità » (Brihad Aranyaka Upanishad, 4-3-32). La Taittiriya Upanishad dedica un capitolo intero alla felicità di Brahman. L’essere umano è costituito di cinque involucri (kosha), il più esterno essendo quello del corpo, il più interno quello della felicità. Al di là si trova il Sé. Un testo di referenza del Vedanta, il Panchadasi, dedica gli ultimi cinque dei suoi quindici capitoli allo studio dei diversi tipi di felicità che vengono dallo Yoga, dal Sé, dalla Non-Dualità, dalla Conoscenza e dagli oggetti.

            La Bhagavad-Gita definisce cosi lo Yoga (VI, 20-23) : « Ciò in che, vedendo il Sé attraverso il sé, ci si rallegra nel proprio Sé ; ciò in che si esperimenta la gioia senza limiti al di là dei sensi, percepita solo attraverso la conoscenza, sappia che quello è ‘Yoga’, la disunione (viyoga) dell’unione (yoga) alla sofferenza. »

            E’ interessante notare che la gioia è quello che la Gita raccomanda come essendo la prima delle ‘pratiche intensive’ (tapas). Si tratta di prasadah cioè una gioia serena, frutto tutt’insieme di una buona natura e di uno stato di grazia. E’ solo dopo che vengono il controllo di sé e le altre virtù. Il che si può capire poiché se non avessimo un saggio della gioia del Sé, perché compiremmo tutte quelle pratiche per realizzarlo ?

Infanzia e trasparenza

            Per tentare di presentire quello che può essere la felicità dell’esperienza spirituale, il metodo migliore dopo, naturalmente, la pratica stessa della meditazione, è di interrogare i saggi. Nisargadatta dice : « Un bambino conosce il suo corpo ma non le distinzioni che caratterizzano quel corpo. E’ semplicemente cosciente e felice. Dopo tutto è per questo che è nato. Il piacere di essere è la forma più semplice dell’amore di sé, amore che matura e diventa amore del Sé. Siate come un bambino senza niente che s’interponga tra il corpo e il Sé. Il parassitaggio costante della vita psichica è assente. In un silenzio profondo il Sé contempla il corpo. E’ come un foglio bianco sul quale ancora non è scritto niente. Siate come un bambino : invece di cercare di essere questo o quello, accontentatevi di essere. » « Lo stato di liberazione dei pensieri sopraverrà all’improvviso e lo identificherete dalla felicità intensa (ananda) che lo avvolge. » E questo è accompagnato da un amore per tutto ciò che s’incontra : « Il segno sicuro del Risveglio risiede nel fatto che amate tutte le cose che vedete, qualunque esse siano. »

            Uno dei primi e più grandi discepoli de Mâ Anandamayî, Bhaiji, ha visto un giorno il suo viso emanere una tale felicità che le ha dato questo nome di anandamayî ‘penetrata di felicità’. Lo racconta nel suo libro Accanto a Mâ Anandamayî, pubblicato in italiano da Vidya Edizioni. Arrivata ad una certa età, Mâ aveva spesso un viso più severo in apparenza. Ciò era forse dovuto alla folla di persone sempre più numerose che la venivano a trovare. Era quasi costretta a fare una sorta di selezione limitando il contatto con i semplici curiosi. Inoltre, I suoi fedeli non erano necessariamente all’altezza di quello che chiedeva loro, ed era pur normale che manifestasse il suo disaccordo prendendo un’aria più severa.

            La gioia, è la percezione del filo che unisce tutte le cose. Mâ diceva : « In una ghirlanda di fiori c’è un filo, dei fiori, delle ‘mancanze’ tra i fiori. Quelle mancanze sono causa di sofferenza. Capire ciò che unisce, libera da ogni mancanza. »  Mâ diceva di sé stessa : « In questo corpo non esiste niente che sia desiderio o mancanza. »

            Si dice che un santo triste sia un ‘triste santo’ : E’ vero, ma prima di diventare un santo è normale non essere in uno stato di gioia continua. Malgrado ciò, penso sia lodevole cercar di esprimere e trasmettere della gioia anche se non la si risente totalmente, come un attore che prova e ripete un ruolo e finisce col entrare veramente nel personaggio. Chi sa ? Un momento forse verrà in cui questa gioia si trasformerà in esplosione e allora si potrà dire con un testo buddista : «  Il ridere dell’essere liberato echeggierà per sempre. »

            Non basta ricercare la gioia senza oggetto, bisogna andare fino alla gioia senza soggetto, quando il nodo dell’ego è rotto. C’è uno stato evocato da Nisargadatta : « L’amore non è selettivo, è il desiderio che è selettivo (…) Quando il centro dell’egoismo scompare (…) non si è più interessato dal fatto di essere felice : al di là della felicità c’è una pura intensità, un’energia inesauribile, l’estasi del dono proveniente da una fonte eterna. »

Riflessioni…pensieri…

Quando avete proprio capito le leggi del mondo spirituale, non avete più bisogno di andar a cercar la gioia : la gioia viene a cercarvi.

Si può analizzare il piacere, però tentar di analizzare la gioia è così insensato come voler tagliuzzare la fiamma, frastagliare l’acqua o sezionare lo spazio.

Coloro che cercano solo la loro piccola felicità personale hanno pochissime probabilità di conoscere vere esperienze spirituali ma tantissime probabilità di conoscere amare delusioni.

La felicità del saggio è priva di oscillazioni perpetue tra eccitazione e soddisfazione. E’ tranquilla come la felicità dell’essere, o semplicemente come la felicità di essere.

A volte, in un’assemblea, c’è un silenzio… «Passa un angelo » come si dice. Meditare è ascoltare il silenzio nell’assemblea dei pensieri e invitare l’angelo a restare.

Il meditante, come l’uomo comune, accetta il fatto che il desiderio è la vita. Per l’uomo comune ne deduce che l’assenza di desiderio è la morte, mentre il meditante pressente nella sua esperienza che è piuttosto l’immortalità.

La felicità della comprensione è mille volte superiore al piacere della soddisfazione ripetitiva.

La gioia dell’essenza è mille volte superiore alla felicità della comprensione.

La gioia del Sé non è lontana quando si rimane nella gioia per la gioia, la gioia in sé.

La soddisfazione ha questo di notevole che si può demoltiplicare all’infinito, la soddisfazione portando la soddisfazione della soddisfazione e così via.

Certo, la gioia è la Via, ma ciò non ha mai significato che sulla Via s’incontrerebbe solo gioia.

Ananda, la felicità dello Yoga : la piena gioia di pieno diritto.

C’è qualche cosa di particolare nelle lacrime di compassione : non si può dire se sono di tristezza o di gioia : sono al di là perché nascono nelle pieghe della  montagna  vuota.

Dalla passione per altro che il Sé nasce l’impazienza. Dalla passione per il Sé, la compassione.

Una vita spirituale giunta a maturità è tutta impregnata di gioia come il corpo di sangue e il sangue di ossigeno. E’ il movimento di questa gioia che fa circolare l’energia.

Colui che è nella gioia al di là di ogni gioia, nell’esperienza al di là di ogni esperienza, quello, in verità, ha raggiunto la stabilità nello Yoga.

E’ tutto consumato per colui che è un maestro consumato nell’arte della gioia.

Le cenere della gioia esalano ancora un profumo di gioia.